Qualche giorno fa ho assistito alla rappresentazione del Re Lear di Shakespeare proposta dal prestigioso Teatro Elfo Puccini di Milano, in cui Lear è interpretato da Elio De Capitani, autorevole, intenso, prodigioso rappresentante del panorama attoriale italiano.
All’inizio del 1600 (1605-1606) Shakespeare concepì questa tragedia in cinque atti, in poesia e prosa, in cui la vita dei personaggi – come è nello stile del Bardo di Avon – non scorre mai su un solo piano. Il nucleo narrativo del dramma è verosimilmente ispirato alle vicende del re britannico Leir, trasformato in Lear, e delle sue tre figlie, che Shakespeare ha rielaborato arricchendole di personaggi. Il componimento, dal contenuto filosofico complesso e denso di significati, è fondamentalmente una riflessione universale sul potere, la vanità e l’ineluttabile fragilità umana.
I temi si sviluppano avvinghiati alla storia della straziante caduta di Lear, sovrano tradito, spogliato del suo potere ed in preda alla follia, che nel suo incedere verso la morte, finisce per ravvedersi ed allontanarsi dall’ideologia feudale che l’ha accompagnato per tutta la vita per abbracciarne una rinnovata, e alla storia del nobile Gloucester e dei suoi due figli, in cui i legami di sangue sono spezzati dall’inganno e dall’ambizione.
Mettere in scena un’opera di Shakespeare, commedia o tragedia che sia, non deve essere cosa semplice, perché il nostro, nel processo di concepimento, ne soppesava ogni minuzioso dettaglio, rendendo così assai complesso il lavoro di chi vi si cimenta, con risultati talvolta non totalmente apprezzabili. Re Lear, poi, è una tragedia particolarmente rischiosa da realizzare, perché, se non ben ponderata, può risultare di difficile comprensione.
Durante la visione di questo spettacolo, al contrario, sono stata testimone del miracolo della perfetta fusione tra la voce del Bardo (nella traduzione di Ferdinando Bruni) e l’armonia plastica di pensiero e sentimento affinata da un superlativo De Capitani, credibilissimo nei panni del canuto re, accompagnato, in quest’avventura, da colleghi di grande esperienza e sensibilità.
E’ grazie a lavori ben riusciti come questo che ho maturato l’amore per il Teatro (la T maiuscola non è casuale). Secondo me, è la forma d’arte che più delle altre è connotata da pluridimensionalità, e la coesistenza delle differenti discipline di cui si compone, nel loro diluirsi in quella che risulta essere molto più della loro somma, ne fa una forma espressiva capace di condurre dapprima gli artisti – coinvolti nei processi di ricerca e studio e nella messa in scena – e lo spettatore poi, a percorrere sentieri di riflessione e approfondimento. In rappresentazioni di così alto livello fa emergere l’essenza di ciò che racconta, e quanto più è complessa e vivida la composita narrazione, tanto più mi ci sento magicamente immersa e partecipe, investita dall’onda delle emozioni che l’alchimia degli elementi costitutivi mi suscita.
Il Re Lear di Bruni e Frongia è senza dubbio la migliore e più coinvolgente rappresentazione di un’opera di Shakespeare a cui abbia assistito: tutte le componenti (interpretazione, caratterizzazione dei personaggi, dinamiche di scena, scenografie, effetti, musiche, etc) sono magistralmente dosate e la resa è, secondo me, straordinariamente potente.
(Virginia Nicoletti)