(Federica Cannas) – A volte la Storia sembra girare a vuoto, ripetendo vecchie formule. Ma poi arriva qualcuno che traccia un cammino nuovo, diverso, più coraggioso. Emilio Lussu appartiene a questa categoria di uomini. Quelli che non accettano mai di restare incasellati dentro le gabbie del tempo e delle convenzioni.
A cinquant’anni dalla sua scomparsa, la sua voce, le sue idee e le sue battaglie sono più vive che mai e le sue intuizioni sono di un’attualità sorprendente.
Si potrebbe raccontare Lussu come il valoroso ufficiale della Grande Guerra che scrisse Un anno sull’Altipiano, il romanzo che ancora oggi resta una delle più spietate e lucide denunce della follia bellica. Oppure come il combattente antifascista che, dopo il confino a Lipari e la rocambolesca fuga, contribuì a costruire l’Italia repubblicana. O ancora come il politico visionario, che fondò il Partito Sardo d’Azione e poi si pose tra i padri del socialismo democratico.
Ma forse il modo più moderno per leggere Emilio Lussu è considerarlo come un uomo che non si è mai accontentato delle categorie imposte. Uno che ha sempre cercato di andare oltre.
Non è mai stato il sardo tradizionalista nel senso in cui molti avrebbero voluto incasellarlo. Il suo sguardo sulla Sardegna non era quello del nostalgico legato a una visione mitologica dell’isola, né quello del paternalista nei confronti del suo popolo. Era uno sguardo lucido, pratico, e soprattutto politico.
Per lui, l’autonomia non era il sogno di un’isola chiusa in se stessa, ma una strada concreta per dare potere ai sardi, per sottrarli alla marginalità imposta dallo Stato centrale. Non a caso, quando si trattò di scrivere lo Statuto sardo, Lussu non lo voleva come un documento secondario, una concessione di Roma ai sardi, ma come un vero patto paritario tra la Sardegna e il resto d’Italia.
E qui sta la sua modernità. L’idea che l’autonomia non sia una questione di campanile, ma di sovranità politica ed economica. Un’idea attualissima, che ancora oggi torna al centro dei dibattiti su come si possa essere autonomi senza essere subalterni.
Lussu era un ribelle, sì, ma senza le esaltazioni di maniera. Non era il politico delle grandi dichiarazioni retoriche, ma quello dei fatti concreti. Anche quando si oppose al fascismo, non lo fece per costruirsi un’aura eroica, ma perché lo considerava la negazione di tutto ciò in cui credeva: la giustizia, la libertà, l’uguaglianza.
Lo stesso atteggiamento lo ebbe nei confronti della Sardegna. Non la difendeva come un’entità astratta, ma come una terra e un popolo che avevano diritto a decidere del proprio destino. Se oggi il tema dell’autonomia è spesso ridotto a slogan o a contrapposizioni sterili, Lussu già allora vedeva il rischio di una battaglia che rimanesse solo sulla carta, senza tradursi in un reale cambiamento economico e sociale.
Se Lussu fosse qui oggi, probabilmente non piacerebbe a nessuno. Sarebbe troppo radicale per i moderati e troppo concreto per i rivoluzionari da salotto. La sua autonomia non sarebbe quella delle lamentele, ma quella dell’azione. Il suo antifascismo non sarebbe una posa, ma una pratica quotidiana.
Forse per questo la sua figura è ancora così potente, così attuale. Perché non si è mai lasciato ingabbiare dentro uno schema. Ha combattuto in guerra, ma è stato un pacifista. Ha difeso l’autonomia, ma è stato un internazionalista. Ha sognato un’Italia migliore, ma non si è mai fidato delle promesse di Roma.
Oggi, quando si parla di Emilio Lussu, sarebbe bene cominciare a leggerlo come quello che è: un politico che ha sempre visto più avanti degli altri. E che, forse, ci ha lasciato domande che ancora attendono risposta.