(Federica Cannas) Immaginiamo un dialogo impossibile tra Victor Frankenstein e Leonardo da Vinci. Il primo, immerso nell’ossessione per la creazione artificiale, incurante delle conseguenze umane del suo esperimento. Il secondo, genio del Rinascimento, che intrecciava arte e scienza in una danza armoniosa, capace di vedere nell’anatomia del corpo anche l’anima dell’uomo. Se oggi potessimo farli incontrare, forse ci aiuterebbero a capire meglio il bivio in cui ci troviamo, tra una tecnologia che crea meraviglie e una società che rischia di perdere se stessa.
Viviamo in un’epoca in cui Alexa ci ascolta, ChatGPT ci risponde, le macchine apprendono. Ma chi insegna ancora a noi stessi ad ascoltare? A sentire? A pensare in profondità?
Non è la tecnologia il problema – Leonardo stesso ne sarebbe incantato – ma l’assenza di un contrappeso umano. Come una macchina lanciata a tutta velocità, il progresso corre senza chiedersi più dove sta andando, e soprattutto perché. Stiamo diventando efficienti, produttivi, superconnessi. Ma anche più stanchi, più svuotati, spesso più soli.
L’intelligenza artificiale è il simbolo di questo paradosso. Capace di comporre musica, scrivere poesie, diagnosticare malattie. Ma può amare? Può soffrire? Può abbracciare un’idea di giustizia o perdonare un errore? La vera questione non è cosa possa fare l’IA, ma cosa stiamo dimenticando noi, mentre lei fa tutto.
In questo scenario, l’umanesimo non è nostalgia, è resistenza. È ricordarci che non siamo solo algoritmi biologici. È portare a scuola la filosofia insieme alla programmazione informatica, lasciare spazio al dubbio anche nei mondi dominati dai dati.
Abbiamo bisogno di una nuova alleanza tra mente e cuore, tra sapere tecnico e coscienza etica. Di un umanesimo rinnovato, che non rinneghi la scienza ma la accompagni, come Virgilio con Dante, attraverso questa selva digitale in cui rischiamo di perderci.
Se Frankenstein ha qualcosa da insegnarci, è che creare senza amore porta al mostro. Se Leonardo ci guarda da lontano, forse ci sta dicendo che anche nel futuro più futuristico, la cosa più rivoluzionaria resterà sempre l’essere umano.
Perché tra circuiti e codici, solo noi conosciamo il battito dell’empatia.
Viviamo in un’epoca in cui Alexa ci ascolta, ChatGPT ci risponde, le macchine apprendono. Ma chi insegna ancora a noi stessi ad ascoltare? A sentire? A pensare in profondità?
Non è la tecnologia il problema – Leonardo stesso ne sarebbe incantato – ma l’assenza di un contrappeso umano. Come una macchina lanciata a tutta velocità, il progresso corre senza chiedersi più dove sta andando, e soprattutto perché. Stiamo diventando efficienti, produttivi, superconnessi. Ma anche più stanchi, più svuotati, spesso più soli.
L’intelligenza artificiale è il simbolo di questo paradosso. Capace di comporre musica, scrivere poesie, diagnosticare malattie. Ma può amare? Può soffrire? Può abbracciare un’idea di giustizia o perdonare un errore? La vera questione non è cosa possa fare l’IA, ma cosa stiamo dimenticando noi, mentre lei fa tutto.
In questo scenario, l’umanesimo non è nostalgia, è resistenza. È ricordarci che non siamo solo algoritmi biologici. È portare a scuola la filosofia insieme alla programmazione informatica, lasciare spazio al dubbio anche nei mondi dominati dai dati.
Abbiamo bisogno di una nuova alleanza tra mente e cuore, tra sapere tecnico e coscienza etica. Di un umanesimo rinnovato, che non rinneghi la scienza ma la accompagni, come Virgilio con Dante, attraverso questa selva digitale in cui rischiamo di perderci.
Se Frankenstein ha qualcosa da insegnarci, è che creare senza amore porta al mostro. Se Leonardo ci guarda da lontano, forse ci sta dicendo che anche nel futuro più futuristico, la cosa più rivoluzionaria resterà sempre l’essere umano.
Perché tra circuiti e codici, solo noi conosciamo il battito dell’empatia.