(Federica Cannas) – Non è solo un grande scrittore ad averci lasciato. Con Mario Vargas Llosa se ne va un testimone del Novecento, uno che non ha mai avuto paura di stare dentro il fuoco delle contraddizioni, e neppure di bruciarsi. Non ha mai cercato comode appartenenze, né letterarie né ideologiche. Ha attraversato il secolo da protagonista, come se la vita fosse un lungo romanzo da abitare fino in fondo, parola dopo parola.
Morto a Lima, a 89 anni, Vargas Llosa chiude un’epoca, quella del Boom latinoamericano, ma lascia aperte tutte le domande. Perché la sua voce non era fatta per tranquillizzare, bensì per scuotere. Non per compiacere, ma per capire. Non per insegnare, ma per disturbare dolcemente le coscienze.
Era nato ad Arequipa nel 1936 e crebbe credendo che suo padre fosse morto. Quando, a dieci anni, scoprì che era vivo, il mondo per lui cambiò faccia. Da quella rivelazione, più ancora che da un’ideologia, nacque la sua ossessione di voler capire dove finisce la verità e dove comincia la finzione. E viceversa. Per lui, la letteratura era il solo strumento in grado di avvicinare l’essere umano a questa linea di confine.
Il suo primo romanzo, La città e i cani, fu un atto di rottura. Contro l’autorità, contro la retorica patriottica, contro l’omertà militare. Lo bruciarono pubblicamente nelle scuole, ma il libro divenne un caso mondiale. Non era ancora trentenne, e già si capiva che Vargas Llosa non sarebbe mai stato uno scrittore accomodante.
Ogni suo romanzo era una battaglia interiore ed esterna. In Conversazione nella cattedrale si domandava: “In che momento si era fottuto il Perù?”. Una frase che rimane inchiodata nella mente, perché più che una domanda sul suo Paese è una domanda sul destino di ogni società che smette di credere in sé stessa.
Politicamente fu un uomo fuori dal gregge. Passò dalla sinistra rivoluzionaria al liberalismo democratico senza perdere la coerenza con la sua idea più profonda: la libertà dell’individuo. Nel 1990 si candidò alla presidenza del Perù. Fu sconfitto da Fujimori. Quel giorno Vargas Llosa capì che la politica non era la sua lingua madre. Tornò alla letteratura, più lucido, più feroce, più libero.
Nel 2010 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura. Nel suo discorso, disse parole che oggi suonano ancora più necessarie: “Senza le finzioni, la nostra vita sarebbe più povera di spirito, meno ricca di emozioni vere”. Era il suo manifesto. Scrivere per immaginare un mondo migliore, anche quando sembra impossibile.
Dietro il grande intellettuale, c’era un uomo colto e curioso, che amava il calcio e la musica classica, che annotava i sogni in taccuino con la calligrafia di chi rispetta ogni parola. Che a 87 anni varcò la soglia dell’Académie Française, primo autore non francofono nella storia, senza mai rinnegare le strade polverose del suo Perù.
Oggi non piangiamo solo la fine di un narratore immenso. Piangiamo un modo di essere intellettuali che sembra in via d’estinzione. Rigoroso, appassionato, combattente.
Mario Vargas Llosa ci lascia con una certezza. La letteratura non serve a consolare. Serve a risvegliare.
E allora non chiediamoci quando si è fottuto il Perù, come scrisse lui.
Chiediamoci piuttosto se siamo ancora in grado di riconoscere la voce di chi ci parla con sincerità, in un mondo che urla per farsi ascoltare.
Ecco perché Vargas Llosa non se ne va davvero.
Resta, ogni volta che qualcuno apre un suo libro e comincia a farsi domande.