(Federica Cannas) – C’è chi, nello sport, insegue la vittoria e chi, come Julio Velasco, sa trasformarla in un dettaglio di una visione più ampia. Velasco non è solo un allenatore straordinario, ma un vero conoscitore delle emozioni e delle esperienze umane. Con la sua presenza, la pallavolo è diventata un laboratorio di vita, in cui non si costruiscono solo campioni, ma persone.
Nato a La Plata nel 1952, ha portato nel mondo dello sport la profondità delle sue radici argentine, segnate da tragedie personali e politiche. In un Paese devastato dalla dittatura militare, la sua famiglia subì il peso della repressione: suo fratello Luis fu sequestrato, torturato e restituito alla vita con cicatrici indelebili, fisiche e dell’anima. Quel dolore, invece di spezzarlo, ha plasmato Julio, rendendolo un uomo capace di vedere nello sport un’occasione di riscatto collettivo, di solidarietà e di rinascita.
Per Julio Velasco, il campo da pallavolo non è solo il luogo di una competizione, ma una metafora della vita stessa. “Chi vince festeggia, chi perde spiega,” ama ripetere, non per romanticizzare la sconfitta, ma per insegnare che ogni errore è una lezione, ogni caduta un’occasione per rialzarsi con più forza. La sua filosofia è chiara: il talento conta, ma senza sacrificio e dedizione è qualcosa che rimane a metà.
Questa visione ha trasformato non solo i suoi atleti, ma anche chiunque abbia avuto il privilegio di ascoltarlo o di seguirlo. Velasco non è l’allenatore che grida dalla panchina, ma il maestro che, con poche parole, sa dare significato alle vittorie e, soprattutto, alle sconfitte.
Il “velaschismo”, prima ancora che una metodologia, è una vera e propria filosofia di vita. Le sue regole sono semplici, quasi disarmanti nella loro autenticità. Prima di tutto, non mollare mai, non solo nello sport, ma davanti a qualsiasi sfida della vita. Poi, la consapevolezza che ogni successo è figlio del sacrificio. Nessun traguardo, personale o collettivo, può essere raggiunto senza dedizione. Infine, il principio che ha reso immortale la sua visione: la squadra viene prima del singolo. “L’idea che arrivi uno e risolva tutto, è sbagliata e pericolosa,” ha affermato, scardinando il mito dell’eroe solitario. Per Velasco, la vera forza non è in un individuo, ma in un gruppo che lavora insieme, che si sostiene, che trova nell’altro il proprio complemento. Insomma, in un mondo che celebra l’individualismo, Velasco capovolge la prospettiva: la forza di una squadra, e della vita stessa, sta nella capacità di lavorare insieme, di condividere responsabilità e obiettivi. E questo è un messaggio che si adatta ad ogni ambito della vita.
Negli anni ’90, Julio Velasco ha trasformato la Nazionale Italiana maschile di pallavolo in una delle squadre più vincenti della storia. “La Generazione di Fenomeni” non fu solo un’etichetta, ma un riconoscimento per un gruppo capace di ridefinire gli standard dello sport, con vittorie memorabili e un gioco che ha unito tecnica, tattica e anima. Ma ciò che ha reso quel periodo unico è stata la capacità di Velasco di far emergere non solo atleti, ma uomini.
E quando, nell’estate scorsa ha guidato l’Italvolley femminile sino alla conquista della medaglia d’oro olimpica, ha scritto, se vogliamo, un capitolo ancora più straordinario della sua carriera. Quella vittoria contro gli Stati Uniti è stata molto più di un trionfo sportivo. Ha rappresentato un messaggio di speranza, celebrando nello stesso tempo la determinazione e la bellezza della collaborazione.
Perché non è importante quello che facciamo, ma come lo facciamo. Questa è l’essenza della sua filosofia. Ció che conta davvero è l’approccio, la dedizione, il rispetto per il processo. A prescindere dal risultato finale.
Una leggenda vivente, Julio Velasco.
Ci insegna che lo sport può essere molto più di una gara. È uno specchio che riflette chi siamo, un campo in cui si costruiscono caratteri e si creano valori.
Non solo vittorie, ma principi che risuonano ben oltre le palestre e i campi da gioco. Ci invita a vivere con coraggio, a lottare, a costruire con gli altri.
La sua più grande lezione è l’idea che lo sport, come la vita, è una questione di collaborazione, di fatica condivisa, di obiettivi che valgono più delle ambizioni personali. È il riflesso di un’umanità che si esprime al meglio quando smette di guardare al proprio vantaggio e inizia a costruire insieme.
Perché alla fine, lo sport non è solo un gioco. È vita.