(Federica Cannas) Sul palco entrano personaggi impeccabili, vestiti di battute e di convenzioni. Ma dietro il sipario, Oscar Wilde ha già tolto loro il trucco.
La commedia comincia. E pure i veli cadono.
Nel cuore dell’Inghilterra vittoriana, rigida e compunta, sceglie il genere più leggero, la commedia brillante, e lo trasforma in un’arma affilata.
Come un elegante chirurgo sociale, apre le maglie dell’ipocrisia borghese senza mai strillare, senza mai scadere nell’invettiva. Le sue battute sembrano giochi di società. In realtà sono coltellate.
Wilde prende la struttura classica della comedy of manners e la svuota dall’interno.
Invece di limitarsi alla caricatura dei salotti, li esplora con uno sguardo impietoso ma lucido. Non deride solo i personaggi. Deride l’intero impianto sociale che li sostiene.
Il matrimonio, l’onore, la reputazione, l’eredità, il nome. Tutto viene smontato con leggerezza.
E proprio perché lo fa ridendo, colpisce più in profondità.
In L’importanza di chiamarsi Ernesto, il nome non è solo un dettaglio. È il lasciapassare per essere accettati nella società. Una farsa irresistibile viene costruita attorno a un equivoco linguistico, ma sotto la comicità si cela una verità scomoda. Contano più le apparenze che l’identità reale. Lady Bracknell, figura comica solo in superficie, incarna con perfezione grottesca l’arbitrarietà e la rigidità delle convenzioni sociali.
In Il ventaglio di Lady Windermere, il giudizio morale domina le relazioni, ma Wilde ne mostra la fragilità. Un gesto malinteso, un segreto taciuto, perché tutto si incrini. Il moralismo, travestito da virtù, si rivela una maschera pronta a cadere.
In Un marito ideale, l’onore politico è una facciata lucidata con cura. Viene in scena una società dove l’etica è negoziabile e la rispettabilità pubblica si fonda su compromessi privati. La commedia diventa così una sottile critica al potere e ai suoi meccanismi ipocriti.
Dietro l’umorismo tagliente, c’è un’intera ideologia che si sgretola.
Wilde mette a nudo la società senza giudicarla apertamente, ma facendo emergere le sue crepe attraverso il meccanismo impeccabile della comicità.
E lo fa con uno stile che è, ancora oggi, impossibile da imitare. Brillante, incisivo, eppure profondamente umano.
La sua modernità sta tutta lì.
Nel farci ridere mentre ci dice cose serissime.
Nel far sembrare naturale ciò che è scandaloso.
Nel farci dubitare di ogni certezza con una sola frase.
Chi lo riduce a dandy spiritoso ha capito poco.
Wilde usava l’intelligenza come uno scudo. L’ironia come difesa.
Ma anche come strumento per rivelare.
La sua eredità teatrale non è solo estetica. È politica.
Perché ci insegna che si può fare critica sociale senza alzare i toni.
Che si può scardinare un sistema con una battuta perfetta.
Che si può essere rivoluzionari anche sorridendo.
La risata di Wilde graffia ancora oggi.
E continua a insegnarci che il teatro più potente è quello che, mentre ci fa ridere, ci mette sottilmente a disagio.