C’è stato un tempo in cui anche nel calcio italiano si poteva vincere con l’eleganza. Con l’intelligenza. Con la cura. Un tempo non così lontano, eppure oggi irrimediabilmente mitico, in cui un uomo dallo sguardo gentile rivoluzionava l’idea stessa di cosa significasse “fare il presidente”. Il nome di Paolo Mantovani ancora oggi, a distanza di trent’anni, viene pronunciato con una miscela quasi religiosa di gratitudine e nostalgia. Non solo a Genova, sponda blucerchiata. Ma ovunque ci sia chi ha amato il calcio come linguaggio umano.
Perché Mantovani non fu mai un presidente-padrone, all’italiana. Non urlava in tribuna, non dettava le formazioni, non imponeva la propria vanità sopra la squadra. Fu, piuttosto, un presidente-padre. Di quelli che non ti mettono il fiato sul collo, ma le mani sulle spalle. Che non ti controllano, ma ti formano. Che non ti chiedono di vincere, ma ti mettono nelle condizioni di farlo.
Alla Sampdoria, negli anni d’oro della sua presidenza, si respirava un’aria che nel calcio è rarissima: la fiducia. La fiducia che si costruisce con il tempo, con la parola data e mantenuta, con l’esempio quotidiano. Mantovani seppe scegliere gli uomini giusti. Vialli e Mancini, Boskov e Pagliuca, Vierchowod e Lombardo. Ma, soprattutto, li aiutó a crescere. Li trasformò in calciatori maturi e in uomini consapevoli. La Samp non fu solo la squadra che vinse uno scudetto, quello irripetibile del 1990-91, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa e sfiorò una Coppa dei Campioni. Fu un laboratorio di sport e di umanità.
Non c’era niente di casuale, però, nel suo stile. Mantovani era un imprenditore vero, uno che veniva dal lavoro e ne conosceva il valore. Ma portò nel calcio un’idea d’impresa che metteva al centro la persona. Il suo modello era una rarità già allora, figurarsi oggi. Niente proclami, niente teatrini mediatici. Mantovani vinceva in silenzio, o al massimo con un sorriso. E quando perdeva, restava.
Forse è questo che manca oggi nel calcio: la capacità di durare, di costruire relazioni che siano più forti del risultato. La capacità di dire “io ci sono”, anche se oggi non giri. Paolo Mantovani fu anche questo per i suoi giocatori. Una presenza costante, discreta ma salda. Un uomo che sapeva commuoversi e che credeva nei sogni, ma con un piano per realizzarli.
Per questo oggi, a pensarci bene, non è tanto la Samp dello scudetto che commuove. È l’idea che quel modello fosse possibile. Un’idea che oggi sembra lontanissima, quasi utopica, e che invece c’è stata davvero.
Nel calcio di oggi, fatto spesso di show e di speculazioni, di presidenti che giocano a fare i protagonisti a tutti i costi, la lezione di Paolo Mantovani resta lì, intatta e urgente. Non ci dice solo come si costruisce una squadra. Ci dice qualcosa di molto più profondo. Come si guida. Come si educa. Come si resta, anche dopo, anche quando non ci sei più.
Ecco perché Paolo Mantovani non è soltanto il presidente dello scudetto. È il presidente di un’idea di calcio in cui molti hanno smesso di credere, ma che tutti, in fondo, vorrebbero ancora.
di Federica Cannas