Il Festival di Sanremo 2025, tra canzoni e lustrini, ha regalato agli italiani un altro capitolo della lunga saga del “Benigni Show”. Sul palco dell’Ariston, il regista premio Oscar ha difeso a spada tratta il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, elogiandolo come un faro di verità e pace. Un discorso commovente, certo, ma anche il solito copione ben rodato: un’ode ai potenti con l’immancabile tono aulico da vate di corte.
Per chi ha memoria lunga, non è certo una novità. Benigni ha costruito la sua carriera trasformandosi da comico dissacrante a giullare istituzionale, sempre pronto a incensare i potenti del momento con il suo inconfondibile stile tra il poetico e il servile. Il problema non è il contenuto – nessuno nega che Mattarella sia una figura rispettabile – ma il contesto. Perché Sanremo deve trasformarsi nel palcoscenico di sermoni moralistici, mentre chi fa satira “dal basso” viene sempre più spesso silenziato?
Chi oggi si commuove per l’oratoria di Benigni forse ha dimenticato il suo capolavoro di revisionismo storico, La Vita è Bella. Un film che, pur nella sua efficacia cinematografica, ha giocato con la realtà storica per confezionare un happy ending più digeribile agli americani. Non è un caso che, nella sua poetica rivisitazione dell’Olocausto, la liberazione di Auschwitz sia affidata agli americani anziché ai sovietici, che nella realtà furono i primi a entrare nel campo il 27 gennaio 1945. Ma tant’è: Hollywood ama le storie in cui l’Occidente salva il mondo, e l’Oscar è servito.
Sanremo è da sempre una vetrina dell’ipocrisia, dove l’industria dell’intrattenimento si autocelebra sotto il velo della cultura popolare. Tra predicozzi sulla pace e l’inevitabile polemica del giorno, il Festival è ormai un rito annuale in cui l’Italia finge di essere un Paese che si interroga, mentre in realtà sta solo seguendo il copione che più conviene agli sponsor e alle lobby culturali.
Benigni, con la sua performance sanremese, non ha fatto altro che confermare il suo ruolo di attore perfetto per questo teatro. Un tempo era il fustigatore del potere, quello che saliva sul palco insultando i politici. Oggi è il loro cantore, il poeta ufficiale del conformismo.
Attenzione, però: non è un tema politico. Non si tratta di destra o sinistra, ma di ragionevolezza storica e culturale. Il problema è la narrazione, la retorica costruita a tavolino per servire un’idea di società dove le voci critiche vengono marginalizzate e le prediche vengono fatte solo da chi ha il lasciapassare giusto.
E così, tra una standing ovation e una lacrimuccia strategica, il Festival di Sanremo si riconferma l’evento per eccellenza della retorica ben confezionata. Un evento dove si canta, si piange e si celebra il pensiero unico. Alla prossima edizione, con un altro sermone di Benigni e un’altra dose di ipocrisia nazionale.
di Raimondo Schiavone