(Federica Cannas) – Ci sono luoghi che pesano sulla coscienza di una nazione come custodi di un “mai più” che non ammette riduzioni, né sconti. Il Museo Sitio de Memoria ESMA, in Argentina, è uno di questi. E oggi, dieci anni dopo la sua apertura come museo, è più che mai al centro di una battaglia politica e morale.
È stato inaugurato nel 2015, ma è molto più di un’istituzione culturale. È il centro della memoria collettiva di un Paese che ha conosciuto l’orrore della dittatura. Qui, nella Scuola di Meccanica della Marina, più di cinquemila persone furono detenute illegalmente, torturate, fatte sparire. Oggi, quel luogo – riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’UNESCO – è sotto attacco. Non fisico, non ancora. Ma simbolico e profondo.
Il governo di Javier Milei, in una delle sue prime mosse, ha ridotto la Segreteria per i Diritti Umani a sottosegretariato, passando la gestione del museo ad un organismo oggi senza direzione. Il segnale è chiaro. Si vuole smontare, pezzo dopo pezzo, la memoria attiva che ha fatto dell’Argentina un esempio nel mondo in tema di giustizia post-dittatura. La risposta della società civile, però, è stata immediata e determinata.
Il 22 maggio, nel decennale della sua apertura, il Museo ESMA ha celebrato la sua resistenza. Tra gli interventi più forti, quello di Guillermo Pérez Roisinblit, nato in quel luogo mentre sua madre era detenuta: “Chi cerca di ridurre lo Stato nei diritti umani, vuole nascondere. Ma questo museo dimostra che come società abbiamo deciso di non dimenticare”. È il passato che parla al presente, con la voce di chi non ha mai smesso di cercare la verità.
Ana Soffiantini, sopravvissuta della ESMA, e la giudice María Roqueta, che ha riconosciuto l’esistenza di un piano sistematico di sottrazione dei bambini durante la dittatura, hanno ricordato che la memoria non è un sentimento astratto. È fatto di volti, di nomi. È giustizia. E Vera Jarach – una delle Madres de Plaza de Mayo – lo ha detto senza mezzi termini: “Mai più silenzio”.
L’assenza delle autorità governative alla cerimonia ha fatto rumore. E non è stata casuale. Nello stesso giorno in cui il museo celebrava la sua storia, il governo licenziava più di 400 lavoratori della Segreteria dei Diritti Umani. Un atto di disprezzo verso chi ha costruito con pazienza e coraggio le fondamenta della democrazia.
Ma la presenza di magistrati, attivisti, famiglie dei desaparecidos e giovani visitatori racconta un’altra Argentina. Un’Argentina che resiste. La direttrice del museo, Mayki Gorosito, ha parlato con lucidità: “Il Museo è una istituzione dello Stato argentino. Il suo significato va oltre ogni governo. Qui si testimonia ciò che non deve più accadere”.
Ha raccontato anche dei tagli: da 42 a 28 persone in organico. Di promesse mancate. Ma nonostante tutto, il museo è lì. A ricordare. A insegnare. A difendere la verità.
Perché la verità, in Argentina, non è una parola neutra. È una conquista. È un’eredità.
Il Museo ESMA non è un museo qualsiasi. È un argine contro il negazionismo, l’indifferenza e il revisionismo. E chi lo vuole indebolire non lo fa per ignoranza, lo fa perché sa quanto possa essere potente la memoria quando è collettiva, consapevole, viva.
Durante il processo alle giunte militari, nel 1985, il pubblico ministero Julio César Strassera, al termine della sua arringa, pronunciò una frase che è diventata pietra miliare della democrazia argentina: “Signori giudici, desidero rinunciare espressamente a ogni pretesa di originalità per concludere questa requisitoria. Voglio usare una frase che non mi appartiene, perché ormai appartiene a tutto il popolo argentino. Signori giudici: Mai più.”
Quel “Nunca Más” non è una frase da commemorazione. È un impegno. È la ragione per cui istituzioni come il Museo ESMA non possono essere toccate, né ridimensionate. Perché la memoria non è un fastidio del passato, ma una promessa al futuro.
Mai più. Nunca más.












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