di Federica Cannas
Spesso nei processi le parole smettono di essere difesa e diventano condanna. Non per l’imputato, ma per lo Stato.
Quel momento è arrivato quando Enzo Tortora guardò i giudici e disse: “Io sono innocente. Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”.
Non c’è frase più terribile da pronunciare. Perché smaschera. Mette a nudo il cortocircuito di un sistema che troppo spesso confonde la cautela con la condanna, la denuncia con la verità, il sospetto con la prova. E a quel punto, la giustizia non è più una bilancia, è una trappola.
In Italia, si può essere innocenti e finire in carcere. Non per un errore accidentale, non per una tragica fatalità. Ma per un insieme di automatismi, inerzie, scelte politiche e mediatiche che trasformano la custodia cautelare da estrema ratio in scorciatoia investigativa.
Accade ogni giorno. Bastano le parole di un pentito, un’inchiesta costruita con troppa fretta, un teorema che fa comodo a qualcuno. L’innocente entra nelle maglie del sistema e lì dentro non conta chi sei, conta in cosa sei stato trasformato. Un caso, un titolo di giornale, un volto tra tanti. La presunzione d’innocenza è carta straccia, se la narrazione del colpevole è più appetibile della realtà.
E se anche vieni assolto, resta la macchia. Resta il tempo che ti hanno rubato. Resta il danno irreparabile.
La custodia cautelare in Italia è diventata una condanna anticipata, spesso applicata prima di qualsiasi certezza, e in troppi casi inutilmente.
In un Paese dove oltre 1.000 persone l’anno vengono risarcite per ingiusta detenzione, e dove il processo può durare più della pena stessa, la carcerazione preventiva è diventata l’arma più potente in mano alla mala giustizia.
È il rovesciamento della logica democratica. Prima ti tolgo la libertà, poi vediamo se avevo ragione.
Il carcere, anche solo per qualche mese, distrugge la reputazione, il lavoro, la salute mentale, i rapporti familiari. Quando esci, sei “quello che è stato arrestato per…”. Il sospetto resta. L’ombra non si stacca.
E questo accade anche se sei innocente.
Ci sono vite che si spaccano e non si ricompongono. Ci sono famiglie che implodono. Ci sono persone che non ce la fanno, e nessuno chiederà loro scusa. In Italia, non si fa la pace con l’innocenza violata.
“Spero che lo siate anche voi”. In quella frase, Tortora ha consegnato a tutti noi una domanda scomoda. Non ai magistrati soltanto. Ma a chiunque pensi che la giustizia sia un affare tecnico, che basti applicare il codice.
Serve un diritto penale più umile. Una magistratura più consapevole del proprio potere. Una politica che smetta di usare le manette come spot. Un giornalismo che non anticipi le sentenze. E serve, soprattutto, ricordarsi che ogni imputato è una persona. Non un bersaglio.
“Io sono innocente. Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi.”
Non è solo una frase. È una condanna capovolta. È il momento in cui l’imputato giudica i giudici. E lo fa con una speranza. Non con odio. Non con rancore. Ma con una fiducia disperata nella possibilità che qualcuno, in quella sala, sia ancora giusto.
In quell’istante, l’unica innocenza era la sua.