(Federica Cannas) Buenos Aires, 1982. In una calle Corrientes ancora attraversata dalle ombre della dittatura, una donna sale sul palco. Ha solo la sua voce. E quella voce, che i generali avevano tentato di spegnere con l’esilio e con la paura, torna a riempire l’aria, tagliando il silenzio con la forza di un abbraccio. Mercedes Sosa, “La Negra”, è di nuovo in Argentina. Ed è più grande di prima.
Dopo anni lontana, minacciata dalla repressione, costretta a fuggire in Europa, Mercedes ritorna per cantare. Ma in quel canto si concentra tutta la potenza di un gesto politico, umano. Sfida la censura, la paura e il ricatto con la sola arma che le resta. Una canzone. O meglio, tante canzoni. Alcune nuove. Perché il suo ritorno, con un atto di coraggio, è anche un manifesto. In un’Argentina frammentata, spezzata, dominata dal controllo e dalla violenza istituzionale, Mercedes illumina una verità ancora troppo rivoluzionaria, fatta di trasversalità dei generi, dell’incontro tra le radici popolari e il tango, tra la milonga e i ritmi brasiliani. Come se dicessero “la musica non ha confini”.
La Sosa che torna non è la stessa che era partita. È più sola, più stanca, più consapevole. Ma anche più potente. Perché ha scelto di restare, ora. Di rimettere piede nel suo Paese nel momento in cui farlo può costare ancora caro. Sale su quel palco non con la pretesa di cambiare il mondo, ma con la necessità di non tradirlo. Di non tradire chi, nel frattempo, ha resistito.
Canta per la gente e con la gente. Lo ripete, quasi fosse una preghiera. “Tutte le voci tutte, tutte le mani tutte”.
Una donna sola, che porta con sé l’anima spezzata dell’America Latina e il dolore dell’esilio, riesce a rimettere in moto una speranza collettiva. Canta. E questo basta a minare le strutture, come scrisse Rodolfo Walsh, “con il solo potere della parola”. O della musica.
“Todo el sangre puede ser canción en el viento”. Il sangue può diventare canto nel vento.
E quando lo fa, non c’è censura che tenga.
Perché ci sono voci che non si possono silenziare. E quella di Mercedes Sosa, anche oggi, continua a cantare per chi non può più farlo.
Dopo anni lontana, minacciata dalla repressione, costretta a fuggire in Europa, Mercedes ritorna per cantare. Ma in quel canto si concentra tutta la potenza di un gesto politico, umano. Sfida la censura, la paura e il ricatto con la sola arma che le resta. Una canzone. O meglio, tante canzoni. Alcune nuove. Perché il suo ritorno, con un atto di coraggio, è anche un manifesto. In un’Argentina frammentata, spezzata, dominata dal controllo e dalla violenza istituzionale, Mercedes illumina una verità ancora troppo rivoluzionaria, fatta di trasversalità dei generi, dell’incontro tra le radici popolari e il tango, tra la milonga e i ritmi brasiliani. Come se dicessero “la musica non ha confini”.
La Sosa che torna non è la stessa che era partita. È più sola, più stanca, più consapevole. Ma anche più potente. Perché ha scelto di restare, ora. Di rimettere piede nel suo Paese nel momento in cui farlo può costare ancora caro. Sale su quel palco non con la pretesa di cambiare il mondo, ma con la necessità di non tradirlo. Di non tradire chi, nel frattempo, ha resistito.
Canta per la gente e con la gente. Lo ripete, quasi fosse una preghiera. “Tutte le voci tutte, tutte le mani tutte”.
Una donna sola, che porta con sé l’anima spezzata dell’America Latina e il dolore dell’esilio, riesce a rimettere in moto una speranza collettiva. Canta. E questo basta a minare le strutture, come scrisse Rodolfo Walsh, “con il solo potere della parola”. O della musica.
“Todo el sangre puede ser canción en el viento”. Il sangue può diventare canto nel vento.
E quando lo fa, non c’è censura che tenga.
Perché ci sono voci che non si possono silenziare. E quella di Mercedes Sosa, anche oggi, continua a cantare per chi non può più farlo.