(Federica Cannas) – “Un uomo che era una donna”. Così Antonio Labriola definì Anna Kuliscioff.
Ma quel paradosso è, in fondo, lo specchio di un’epoca che non riusciva a concepire una donna intellettuale, autorevole, rivoluzionaria. Anna era tutto questo.
È stata una delle intellettuali più straordinarie, e ingiustamente trascurate, della storia italiana. Non per mancanza di forza, ma perché le sue idee contenevano già in sè troppo futuro.
Nata in Crimea nel 1857, medico, filosofa, rivoluzionaria, teorica del socialismo, femminista prima ancora che il termine circolasse con naturalezza.
Eppure il suo nome raramente è celebrato.
Perché? Forse perché era troppo libera, troppo in anticipo, troppo poco allineata a qualsiasi schema.
E come tutte le menti davvero radicali, è stata lasciata ai margini della narrazione ufficiale.
Anna nasce come Anja Moiseevna Rosenstein, figlia di un ricco commerciante ebreo. Studia, si forma tra Odessa, Zurigo, Parigi, si avvicina al socialismo rivoluzionario, entra in contatto con gli ambienti anarchici e populisti russi, viene arrestata, esiliata. Scappa. Cambia nome.
Diventa “Kuliscioff”, la donna russa che farà tremare l’establishment italiano.
A Milano, negli anni Ottanta dell’Ottocento, diventa medico dei poveri, e insieme intellettuale di riferimento del socialismo scientifico.
Non solo compagna di Filippo Turati, ma mente lucida, autonoma e pungente.
Analizza con rigore marxista la questione femminile. Rivendica il diritto di voto per le donne, l’indipendenza economica, la parità nella formazione e nel lavoro. Scrive, interviene, partecipa, cura, organizza.
Anna Kuliscioff non separava mai il pensiero dall’azione.
Curava le operaie della Milano industriale con la stessa attenzione con cui scriveva saggi sulla questione sociale. Era, infatti, convinta che la giustizia non fosse un ideale astratto, ma una questione di salute, istruzione, salario, possibilità. Parlava della donna come soggetto politico autonomo.
Nel 1890 scrive uno dei testi più radicali e limpidi dell’epoca, La donna nel socialismo.
Un saggio che oggi, a leggerlo, sembra scritto per noi, per un’Italia ancora incerta sul valore della parità, per un mondo che fatica a riconoscere il lavoro invisibile delle donne, il peso culturale della cura, la portata politica dell’autonomia femminile.
Anna Kuliscioff è stata messa da parte non perché marginale, ma proprio perché centrale.
Perché aveva rotto troppe categorie. Era colta ma popolare, femminista e socialista, libera in un mondo che voleva le donne silenziose. È stata messa a tacere dall’indifferenza storiografica.
Eppure, la sua eredità è ovunque.
Nelle battaglie per la salute pubblica, nel dibattito sul lavoro femminile e sulle politiche di welfare.
Nella tensione tra lotta di classe e questione di genere. In ogni donna che oggi scrive, pensa e agisce liberamente.
Nel centenario della sua scomparsa, che ricorre proprio in questo 2025, il suo nome merita di uscire dall’ombra in cui è stato confinato.
Oggi, mentre ci interroghiamo su cosa significhi essere progressisti, su quale debba essere il ruolo della sinistra, sulla centralità della cura nella società, Anna Kuliscioff ci parla ancora con idee taglienti e attuali. Ci ricorda che non esiste trasformazione sociale senza giustizia di genere. Che non c’è lotta credibile che dimentichi le donne. Che l’emancipazione si costruisce, si pratica, si vive.
Ricordare oggi Anna Kuliscioff non basta.
Bisogna saper cogliere il suo sguardo lungo, perché molte delle battaglie che oggi ci sembrano nuove, lei le aveva già intraviste.
E il futuro che vogliamo costruire somiglia, da vicino, alle sue idee più radicali.












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