(Federica Cannas) – C’è un modo comodo di raccontare David Bowie, quello che si appoggia sulle sue metamorfosi, sui personaggi, sui travestimenti, come se la sua storia artistica fosse soltanto una lunga sequenza di maschere abbandonate e reinventate. Ma la verità è che queste maschere erano strumenti di conoscenza. Bowie non cambiava per stupire, né per provocare, cambiava per capire. Ogni trasformazione era un tentativo di guardare il mondo da un’altra angolazione, perché la realtà ha bisogno di più prospettive per rivelarsi davvero.
La sua innovazione non è mai stata un gesto isolato, un colpo di teatro o una rottura estetica fine a se stessa. È stata un metodo, un modo di attraversare il tempo. Aveva la capacità, rara, di percepire le crepe del presente e inserirsi proprio lì, dove emergevano segnali deboli, incerti, ancora privi di forma. È in queste crepe che nascevano i suoi mondi. Frammenti di futuro immaginati prima che il futuro si manifestasse.
Non sorprende, allora, che molte sue canzoni sembrino parlare in anticipo di ciò che sarebbe arrivato dopo. Space Oddity non è solo la storia di un astronauta, ma il racconto di un distacco necessario per osservare la Terra con occhi nuovi. Life on Mars? è un modo per interrogare il reale, per cogliere l’assurdo come una lente attraverso cui comprendere la complessità del presente. Changes ci mostra che il nuovo non arriva da solo, bisogna avere il coraggio di guardarlo in faccia. E in Heroes c’è forse la sintesi più sorprendente: la consapevolezza che a volte basta un istante di lucidità, un gesto minimo ma decisivo, per trasformare un’intera traiettoria.
Bowie ha trattato l’identità come una materia malleabile. Non l’ha mai considerata un punto fermo, ma una forma transitoria, pronta a mutare non appena diventava troppo stretta. La sua originalità sta nel mostrare che la coerenza non nasce dall’immobilità, ma dalla capacità di attraversare le trasformazioni senza smarrire il proprio nucleo creativo. Questa è la lezione più radicale che lascia alla cultura contemporanea. L’innovazione è un movimento interiore, un modo di tenere aperto il dialogo tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
Lontano dall’idea di un futuro definito, Bowie ha sempre lavorato dentro quella zona instabile in cui nulla è ancora deciso e tutto è possibile. È lì che immaginava, costruiva, smontava, ricostruiva. È lì che ha intuito che l’identità, come l’arte, non è qualcosa da proteggere, ma qualcosa per cui rischiare. Perché è nel rischio che si apre lo spazio dell’innovazione.
Anche nei momenti più delicati della sua carriera, quando la voce si faceva più intima, più fragile, come in Where Are We Now?, Bowie non cercava rifugio nel passato, ma un nuovo punto di vista da cui guardare il tempo. Con l’idea che il futuro non può essere compreso se non sappiamo leggere il presente con attenzione assoluta, con una sincerità talmente profonda da risultare quasi disarmante.
Il suo ultimo gesto musicale, Blackstar, non è un addio, ma un ulteriore scarto. Un altro linguaggio. Un’altra soglia attraversata. Bowie lascia il mondo con la stessa filosofia con cui l’ha attraversato: trasformando il limite in possibilità, la fine in apertura. È forse il suo atto innovativo più coraggioso, perché dimostra che la creazione non teme il buio, anzi lo usa per illuminare ciò che non avevamo ancora visto.
David Bowie non ha soltanto innovato. Ha mostrato che innovare significa accettare l’imperfezione, lo spostamento, la contraddizione. Significa permettersi di non essere definitivi, significa ascoltare ciò che sta arrivando prima che abbia un nome. La sua opera non è una collezione di identità, ma una traiettoria dell’immaginazione umana quando decide di superare i propri confini.
E se oggi nella musica parliamo di creatività, di linguaggi ibridi, di contaminazioni, è perché Bowie ha già percorso quei territori. Ha costruito ponti tra ciò che era e ciò che poteva essere. Ha dimostrato che il futuro è una forma da inventare. Perché non si innova per cambiare il mondo, ma per cambiare lo sguardo con cui lo osserviamo. E da quello sguardo nuovo, inevitabilmente, il mondo cambia davvero.












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