(Federica Cannas) / C’è una voce che nasce lontano, nella città francese Lille, e cresce portando dentro di sé l’eco di un paese perduto. Una voce che attraversa il tempo e le frontiere, che canta per ricordare. È la voce di Ana Tijoux, una delle figure più profonde e autentiche della musica latinoamericana contemporanea.
In Italia è ancora poco conosciuta, eppure altrove è considerata una delle artiste più coerenti e visionarie della sua generazione: una musicista capace di fondere impegno politico e grazia poetica, di unire mondi lontani con la sola forza delle parole.
Nata nel 1977 da genitori cileni costretti all’esilio durante la dittatura di Pinochet, Ana cresce in Francia in un’infanzia divisa tra due lingue e due identità. La sua biografia è già un manifesto: figlia dell’esilio, donna del ritorno, erede di una memoria che non si cancella. Quando torna in Cile, porta con sé la musica come strumento di ricomposizione. E l’hip hop, il genere nato nelle periferie di New York, diventa per lei la casa degli sradicati — “la patria di chi non ha patria”, come ama dire.
In Ana Tijoux non esiste separazione tra la voce e la storia. Ogni brano è un vissuto, un frammento di cronaca trasformato in canto. I temi che attraversano la sua opera — femminismo, diritti sociali, denuncia della disuguaglianza, critica al neoliberismo, memoria storica e migrazione — sono il corpo stesso della sua arte.
Nel brano Antipatriarca, Tijoux canta la libertà femminile con parole limpide, concrete, senza proclami ideologici. “Yo puedo ser lo que se me dé la gana”, ripete con voce ferma. È una frase che racchiude un intero universo politico e personale: la donna come soggetto pieno, la libertà come atto quotidiano.
Ma accanto alla denuncia c’è sempre un tono di tenerezza, una delicatezza che trasforma la lotta in poesia. In Tania, canzone dedicata alla sorella scomparsa, la memoria si fa respiro, e il dolore trova la sua forma più alta nella parola.
Dopo un lungo silenzio discografico, nel 2024 Ana Tijoux è tornata con Vida, un album che rappresenta un punto di svolta. Non è soltanto un ritorno, è anche una rinascita artistica.
Le sonorità si fanno più intime e stratificate; la voce, più matura e controllata, scava nell’animo senza perdere intensità. In Vida convivono l’eredità del rap e la dolcezza del canto, le percussioni urbane e i ritmi andini, il jazz e l’elettronica.
Tutto si muove su un piano di ibridismo culturale: Ana non appartiene a un solo luogo e non vuole farlo. È una cittadina del mondo che parla molte lingue ma conserva una radice comune — quella dell’autenticità.
Ana Tijoux non è un’artista isolata dal proprio tempo. La sua voce accompagna le trasformazioni del Cile come una colonna sonora collettiva.
Nel 2021 ha partecipato, insieme al rapper Portavoz, alla chiusura della campagna elettorale di Gabriel Boric, interpretando Sacar la voz: un titolo che è già un programma politico — “alzare la voce”. Non è un gesto di propaganda, ma la naturale prosecuzione del suo percorso. Tijoux non canta per un partito, canta per una visione di mondo.
E in quella visione ritroviamo molti dei valori condivisi da una generazione politica nuova, rappresentata da figure come Camila Vallejo, ministra del governo Boric. L’idea che la politica debba tornare a essere empatica, umana, costruita sull’ascolto e sull’immaginazione. Tijoux e Vallejo respirano lo stesso clima culturale, lo stesso desiderio di ricostruire un Cile più giusto.
La loro sintonia è quella di due linguaggi — quello della musica e quello della politica — che si sfiorano, si riconoscono, si alimentano a vicenda.
Le collaborazioni di Ana Tijoux attraversano continenti e generi: Jorge Drexler, Julieta Venegas, Shadia Mansour, Talib Kweli, Omar Lye-Fook, iLe.
Ogni incontro è un esperimento di scambio, un dialogo tra culture che rifiuta i confini. Nei suoi dischi convivono influenze europee, africane e latinoamericane. Le parole si intrecciano con strumenti tradizionali, ritmi tribali e arrangiamenti urbani, in una trama che parla di mescolanza e riconciliazione.
Tijoux non è interessata alla purezza, crede nel meticciato come forza creativa, nella contaminazione come linguaggio dell’epoca contemporanea. E così, dalla Francia al Cile, dall’hip hop alla poesia, dal dolore all’impegno, il suo percorso disegna una mappa sonora che è anche una mappa dell’anima.
In un’epoca in cui l’attivismo rischia di ridursi a slogan, Ana Tijoux restituisce al gesto politico una forma umana, emozionale. Nelle sue canzoni la ribellione è lucida, è respiro.
Ogni testo è un invito alla consapevolezza, un atto di empatia che attraversa il tempo e lo spazio. Busco Mi Nombre, ad esempio, recupera i nomi cancellati dai regimi, trasformando il ricordo in canto.
È in questa capacità di unire la dolcezza al rigore che risiede la sua forza: fare della memoria una promessa, non un rimpianto.
In Italia la sua voce è ancora un segreto. Ma basterebbe ascoltare Vida per comprendere che questa artista é una narratrice del nostro tempo.
Nel suo percorso si intrecciano storia, politica e umanità, e la sua musica offre un linguaggio nuovo per parlare di ciò che davvero conta: l’identità, la dignità, la solidarietà, la libertà.
Ana Tijoux canta il mondo da dentro, con consapevolezza. È la dimostrazione che l’arte può ancora cambiare qualcosa, anche solo per il tempo di una canzone.












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