(Federica Cannas) – C’è un’Italia in bianco e nero, un’Italia di campanili e sezioni di partito, di preti con la tonaca impolverata e sindaci con il basco calato sugli occhi, di litigi furibondi e paci sigillate con una stretta di mano. È l’Italia di Don Camillo e Peppone, che dalla penna di Giovannino Guareschi sono usciti fuori con una vitalità tale da diventare eterni.
Ogni volta che un film della saga passa in TV – e succede ancora spesso – ci si ferma a guardare. Perché? Perché quei due, il prete e il sindaco comunista, non sono mai stati solo due maschere folkloristiche. Erano, e sono ancora, l’essenza stessa di un Paese diviso, rissoso, ma in fondo incapace di odiarsi davvero.
Guareschi non ha scritto solo storielle umoristiche, ha scolpito un pezzo d’Italia. Il suo mondo è quello della Bassa Padana del dopoguerra, ma potrebbe essere un qualsiasi paese italiano, con le sue lotte, le sue fazioni, i suoi equilibri precari. L’epoca era quella della grande frattura tra Chiesa e Partito Comunista, tra l’Italia clericale e quella proletaria, tra chi si affidava al Vangelo e chi al libretto rosso. Ma il segreto di Don Camillo e Peppone è che, nonostante tutto, si riconoscevano parte della stessa comunità. Uno tirava pugni, l’altro rispondeva con l’acqua benedetta, ma alla fine il rispetto reciproco vinceva sempre.
Oggi quella divisione politica sembra lontana, almeno nei simboli. Non c’è più il PCI, e la Chiesa ha perso molto del suo potere sociale. Eppure, se cambiamo i vessilli e i riferimenti ideologici, la lotta tra Don Camillo e Peppone è più attuale che mai. Il bisogno di contrapporsi, di urlare le proprie ragioni, ma anche di ritrovare un’umanità comune, è qualcosa che appartiene ancora profondamente all’Italia.
Cosa li rende così attuali? La loro verità umana. Non sono buoni e cattivi, ma uomini pieni di contraddizioni, proprio come lo siamo noi oggi. Peppone è il sindaco comunista che lotta per il popolo, ma in fondo ha rispetto per la Chiesa, e quando c’è da battezzare il figlio non vuole farlo di nascosto, vuole farlo bene, con l’acqua santa e il rito vero. Don Camillo è il parroco che parla con Cristo, ma non è certo un santino. Prende a botte Peppone, spara con il fucile, ama le moto e non si fa mettere i piedi in testa.
Oggi, in un mondo di politica urlata e muri ideologici, manca proprio questo: il conflitto sano, fatto di idee e non di odio. Don Camillo e Peppone litigano, si fanno dispetti, ma non smettono mai di vedersi come esseri umani. Questa è la lezione che ci danno ancora oggi. Il nemico non è un mostro, è solo uno che la pensa diversamente.
Forse il motivo per cui, ogni volta che li troviamo in TV, ci fermiamo a guardarli, è proprio questo. Perché ci ricordano un’Italia più autentica, dove si poteva essere avversari senza distruggersi. Il loro mondo era fatto di scaramucce epiche, litigi furibondi e riconciliazioni necessarie, qualcosa che oggi sembra essersi perso in un dibattito pubblico sempre più sterile e avvelenato. E poi c’è la magia del bianco e nero, che non è solo nostalgia, è il segno di un cinema che sapeva raccontare, senza effetti speciali, solo con la forza dei personaggi e dei dialoghi.
Alla fine, se Don Camillo e Peppone continuano a piacere a tutti, è perché dentro di loro c’è qualcosa di profondamente italiano, qualcosa che va oltre le ideologie e oltre il tempo. Sono il simbolo di una comunità che litiga, ma che, quando serve, sa di dover stare unita. E forse, ogni volta che li rivediamo, ci ricordiamo che anche noi, in fondo, siamo un po’ come loro.