(Federica Cannas) – Aveva fatto pace con l’abbondanza. Non solo quella dei corpi, ma quella più segreta delle contraddizioni, delle ferite, delle ironie che l’America Latina si porta addosso da sempre, come una camicia troppo stretta.
Fernando Botero ha dipinto il mondo come se fosse troppo pieno per rimanere dentro le sue forme. E allora quelle forme le ha allargate. Braccia, fianchi, cavalli, madonne, generali, prostitute. Tutto straborda con compostezza.
Nei suoi personaggi non c’è mai una smorfia. Anche nudi, umiliati, torturati, restano lì, fermi, immobili, come se il tempo si bloccasse accanto a loro.
Ha guardato la Colombia con gli occhi di chi ha visto troppo. Madri, militari, musicisti, bambini. Li ha dipinti tutti allo stesso modo, con lo stesso rispetto, fermi nello spazio, senza alcuna gerarchia.
Il suo tratto è rotondo, ma non solo per come disegna i corpi. È rotondo perché contiene memoria, tempo, attenzione. Ogni linea trattiene qualcosa che non deve andare perduto.
Nel 2004, dopo l’orrore delle torture di Abu Ghraib, Botero ha dipinto corpi nudi, stravolti, eppure mai svuotati della loro dignità. Anche il dolore, nei suoi quadri, resta umano.
Lo stesso ha fatto con la violenza colombiana. La ha dipinta a lungo, con ossessione e rispetto, poi ne ha fatto dono ai musei pubblici del suo paese. Non ha mai voluto guadagnarci. Come se rappresentarla fosse un atto necessario per sé e per gli altri. Un modo per curare la ferita.
La sua Colombia non è quella del realismo magico. È una terra dove il potere ha sempre la pancia troppo piena e la gente troppo vuota. Eppure, anche lì, qualcosa resiste. A volte è solo un bambino con la fisarmonica, una donna che balla, una coppia che si abbraccia in mezzo al disastro. È quel poco che basta per non perdere del tutto la speranza.
C’è una sensualità spiazzante, nei suoi nudi. Le donne di Botero non si vergognano, non si nascondono. Si mostrano e stanno lì, immense e presenti, con le loro curve di resistenza.
I critici lo hanno snobbato a lungo. Troppo popolare, troppo amato, troppo leggibile. Ma Botero non ha bisogno di essere spiegato. Lo si capisce con gli occhi, lo capiscono anche i bambini. Le sue statue nelle piazze fanno compagnia. I suoi dipinti rassicurano, anche quando parlano di morte.
Botero non è l’artista dell’eccesso. È l’artista della misura perduta. Quella che ci serve per capire quando è troppo. Quando la violenza è troppa, quando il potere è troppo, quando la vita stessa è così intensa da non poterla contenere nei bordi che le imponiamo.
Per questo le sue opere consolano. Non perché addolciscono la realtà, ma perché le danno spazio. Spazio per respirare, per ricordare, per vivere con fragilità e pienezza.
(Federica Cannas) – Aveva fatto pace con l’abbondanza. Non solo quella dei corpi, ma quella più segreta delle contraddizioni, delle ferite, delle ironie che l’America Latina si porta addosso da sempre, come una camicia troppo stretta.
Fernando Botero ha dipinto il mondo come se fosse troppo pieno per rimanere dentro le sue forme. E allora quelle forme le ha allargate. Braccia, fianchi, cavalli, madonne, generali, prostitute. Tutto straborda con compostezza.
Nei suoi personaggi non c’è mai una smorfia. Anche nudi, umiliati, torturati, restano lì, fermi, immobili, come se il tempo si bloccasse accanto a loro.
Ha guardato la Colombia con gli occhi di chi ha visto troppo. Madri, militari, musicisti, bambini. Li ha dipinti tutti allo stesso modo, con lo stesso rispetto, fermi nello spazio, senza alcuna gerarchia.
Il suo tratto è rotondo, ma non solo per come disegna i corpi. È rotondo perché contiene memoria, tempo, attenzione. Ogni linea trattiene qualcosa che non deve andare perduto.
Nel 2004, dopo l’orrore delle torture di Abu Ghraib, Botero ha dipinto corpi nudi, stravolti, eppure mai svuotati della loro dignità. Anche il dolore, nei suoi quadri, resta umano.
Lo stesso ha fatto con la violenza colombiana. La ha dipinta a lungo, con ossessione e rispetto, poi ne ha fatto dono ai musei pubblici del suo paese. Non ha mai voluto guadagnarci. Come se rappresentarla fosse un atto necessario per sé e per gli altri. Un modo per curare la ferita.
La sua Colombia non è quella del realismo magico. È una terra dove il potere ha sempre la pancia troppo piena e la gente troppo vuota. Eppure, anche lì, qualcosa resiste. A volte è solo un bambino con la fisarmonica, una donna che balla, una coppia che si abbraccia in mezzo al disastro. È quel poco che basta per non perdere del tutto la speranza.
C’è una sensualità spiazzante, nei suoi nudi. Le donne di Botero non si vergognano, non si nascondono. Si mostrano e stanno lì, immense e presenti, con le loro curve di resistenza.
I critici lo hanno snobbato a lungo. Troppo popolare, troppo amato, troppo leggibile. Ma Botero non ha bisogno di essere spiegato. Lo si capisce con gli occhi, lo capiscono anche i bambini. Le sue statue nelle piazze fanno compagnia. I suoi dipinti rassicurano, anche quando parlano di morte.
Botero non è l’artista dell’eccesso. È l’artista della misura perduta. Quella che ci serve per capire quando è troppo. Quando la violenza è troppa, quando il potere è troppo, quando la vita stessa è così intensa da non poterla contenere nei bordi che le imponiamo.
Per questo le sue opere consolano. Non perché addolciscono la realtà, ma perché le danno spazio. Spazio per respirare, per ricordare, per vivere con fragilità e pienezza.












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