(Federica Cannas) – Lisbona è un sentimento che non si riesce a trattenere. Una città che non si lascia mai definire del tutto.
Camminando tra gli azulejos che brillano alla luce dell’Atlantico, si avverte qualcosa che non è nostalgia e non è malinconia. I portoghesi lo chiamano saudade, parola che non ha sinonimi, perché non parla di ciò che è stato, ma di ciò che continua a vibrare anche quando non c’è più.
La saudade è un atto d’amore paradossale. È amare ciò che non esiste più e, nello stesso tempo, ciò che ancora non è accaduto. Un sentimento bifronte, sospeso tra assenza e attesa. In questo senso, Lisbona ne è la perfetta incarnazione. Città rivolta all’oceano, che guarda sempre altrove, ma con il passo lento di chi conosce il peso delle partenze.
José Saramago scriveva che “non siamo mai la stessa persona quando ritorniamo in un luogo”. Ecco perché a Lisbona l’amore non può mai essere fissato una volta per tutte. È un sentimento che muta, che si trasforma insieme al tempo e agli spazi che attraversiamo. La saudade è il riconoscimento di questa trasformazione continua. Non è l’illusione di fermare l’attimo, ma il coraggio di accettare che l’attimo si dissolva.
In questa città, l’amore si racconta con gesti minuti. Il bicchiere di ginjinha bevuto da soli al banco, lo sguardo rivolto verso il Tago al tramonto, le parole di un fado che chiede di restare in ascolto.
Per questo, camminando oggi tra i vicoli di Alfama o sulle piazze assolate del Bairro Alto, si percepisce che la saudade non è solo malinconia di chi resta, ma anche un modo di resistere. Un sentimento che non chiude mai il cerchio, che non accetta la fine come destino. È una lezione che Lisbona offre a chiunque la attraversi. Non smettere di amare ciò che manca e ciò che verrà, perché è in questa tensione che l’amore diventa forza vitale e inesauribile.
E allora la saudade non è mancanza sterile, ma una forza. È ciò che spinge a continuare a cercare, a rimanere aperti, a non chiudere mai la porta dell’attesa. Lisbona insegna che amare significa proprio questo. Accettare che una parte di ciò che amiamo sia sempre altrove, irraggiungibile, e che proprio lì risieda la sua profondità.












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