di Federica Cannas
Un tempo l’Italia rideva davvero. Lo faceva in tv, nei teatri, nelle canzoni leggere, nei film con Alberto Sordi o Totò. Poi qualcosa si è spento. A metà degli anni Settanta la risata è diventata più rara, più amara, più incerta. Il sogno rivoluzionario del ’68 era finito nel sangue, nella paura, nei depistaggi. Le bombe nelle piazze, le lettere anonime, le notti d’inchiostro e piombo. E intanto, tra la cappa della tensione e i compromessi della politica, l’Italia si era messa il lutto addosso senza nemmeno accorgersene.
Proprio allora, quando nessuno se l’aspettava, è arrivato lui. Rino Gaetano.
Con una voce spigolosa, una faccia da ragazzo del sud e la leggerezza dei matti veri.
Portava domande, paradossi, rime assurde che sembravano scherzi. Cantava ridendo, sì. Ma rideva come si ride al funerale di un’epoca. Per non piangere.
Chi lo ascoltava per caso credeva fosse un comico. Chi si fermava, capiva che dietro il nonsense c’era un’intelligenza viva, una malinconia, una critica sociale che non faceva sconti a nessuno. Cantava dell’Italia che inciampava.
Le sue canzoni sembravano filastrocche, ma erano radiografie spietate. In Nuntereggae più infilava nomi come proiettili, senza paura. Ne La ballata di Renzo anticipava una verità così scomoda che per anni nessuno osò trasmetterla.
Rino Gaetano non aveva bisogno di alzare la voce, perché diceva la verità sottovoce.
In un’Italia che si prendeva terribilmente sul serio, lui si presentava con la leggerezza dei giullari medievali. Ma, come ogni giullare, era l’unico che poteva dire in faccia al re che era nudo.
Per questo lo hanno tenuto ai margini. Troppo imprevedibile per essere impegnato, troppo lucido per essere leggero. Era un artista fuori tempo e fuori luogo. Proprio per questo, necessario.
La sua morte improvvisa, assurda, quasi scritta da lui stesso, ha completato il disegno.
Come se quel suo sorriso ironico si fosse spento per dirci “avete capito troppo tardi”.
Eppure Rino Gaetano è rimasto. Nelle piazze, nelle radio, negli occhi di chi non si accontenta.
Resta ogni volta che qualcuno si accorge che una battuta può contenere una rivoluzione, che l’ironia è una forma di giustizia, e che gli ultimi hanno bisogno di qualcuno che li racconti.
Resta, soprattutto, in quella canzone che sembra solo allegra ma è, in realtà, una delle più dure: “Chi vive in baracca, chi suda il salario, chi ama l’amore e i sogni di gloria,
chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria…”
Il cielo è sempre più blu è l’Italia tutta, vista dall’alto e dal basso, dai tetti e dai marciapiedi.
Un catalogo umano che accoglie. Non era ottimismo, era resistenza.
La sua idea che, nonostante tutto, valga ancora la pena guardare in alto.
L’Italia di oggi, con le sue nuove paure e le sue vecchie bugie, non è così diversa da quella che cantava lui.
Forse per questo non smettiamo di riascoltarlo. Perché la sua voce dice ancora una cosa semplice e definitiva.
Non è vero che l’Italia ha smesso di ridere.
Ha solo bisogno di qualcuno che la faccia ridere sul serio.