(Federica Cannas) – Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra, è uno di quei luoghi che entrano nella letteratura di diritto. Era l’estate del 1816, passato alla storia come l’anno senza estate. Un’eruzione vulcanica in Indonesia aveva oscurato i cieli d’Europa, portando freddo e pioggia anche nei mesi che avrebbero dovuto essere luminosi. In quella strana oscurità, un gruppo di giovani si ritrovò a immaginare storie dell’orrore. Nessuno sapeva che da quelle notti sarebbe nato uno dei romanzi più innovativi e inquietanti mai scritti: Frankenstein.
Gli ospiti erano pochi, ma straordinari. George Gordon Byron, il poeta maledetto, che già incarnava lo spirito romantico nella sua versione più scandalosa. Con lui c’era Percy Bysshe Shelley, il visionario inglese, e accanto a lui la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, che pochi anni dopo sarebbe diventata Mary Shelley. Ad accompagnarli, Claire Clairmont, sorellastra di Mary, e John Polidori, medico personale di Byron, che da quella stessa esperienza avrebbe tratto il primo racconto moderno di vampiri.
Il clima era cupo, le serate interminabili. Byron, per ingannare la noia, propose un gioco. Ognuno avrebbe scritto una storia di fantasmi. Si trattava di un passatempo, nulla di più. Ma in quelle stanze illuminate da candele, il gioco prese una piega inattesa.
Mary, che allora aveva appena diciotto anni, ascoltava. Non aveva ancora l’autorità dei grandi poeti che la circondavano, ma aveva un immaginario potente, nutrito dalle letture scientifiche e filosofiche del tempo. Quando arrivò il suo turno, mise al centro del racconto la scienza, la possibilità di dare vita all’inanimato, e il dramma umano di chi osa troppo. Frankenstein nacque così da un lampo notturno, da un incubo che Mary stessa raccontò di aver avuto, in cui vide “un pallido studente di arti proibite inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme”.
Ben lungi dall’essere solo un racconto dell’orrore, era un romanzo che anticipava l’era moderna. In pieno Ottocento, Mary Shelley aprì la strada alla fantascienza, ma soprattutto scrisse una parabola etica. La creatura non era un mostro in sé, lo diventava perché respinta, perché privata di amore e riconoscimento. Era la fragilità dell’essere umano, non la sua potenza, a emergere dalle pagine.
Byron e Shelley, con la loro poesia visionaria, furono travolgenti. Ma fu Mary a scrivere l’opera destinata a resistere. Lei, la più giovane e apparentemente la più silenziosa, seppe dare forma a un mito universale. E accanto, Polidori creò Il vampiro, progenitore diretto del Dracula di Bram Stoker. In una sola estate, senza saperlo, quel gruppo di giovani diede alla letteratura gotica una svolta che avrebbe segnato l’immaginario fino al nostro tempo.
Villa Diodati rimase il teatro di un gioco dal quale scaturì un romanzo straordinario. È curioso pensare che Frankenstein, romanzo di lampi elettrici e creature create in laboratorio, sia nato da una serata di pioggia, da una sfida fra amici, da un incubo. E da una ragazza che aveva una potente immaginazione.
Forse il segreto di quella notte è proprio questo. L’innovazione nasce spesso da margini inaspettati. Da chi non ha ancora un nome, da chi sa ascoltare, da chi porta dentro di sé un bagaglio di letture e ferite personali. Mary Shelley trasformò un gioco in un capolavoro. Scrisse che l’uomo poteva osare fino a sfidare la creazione, ma che il vero orrore non stava nella scienza, bensì nell’assenza di empatia.
Quell’estate del 1816 resta un paradosso. L’anno senza sole generò alcune delle storie più incandescenti della modernità. E Villa Diodati, con i suoi lampi e le sue ombre, ci ricorda che a volte basta un gioco, una notte, un gruppo di giovani inquieti per cambiare il futuro.












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