Ricorre quest’anno il centenario della morte di Franz Kafka, scrittore tra i principali esponenti del modernismo, artefice di opere capaci ancora oggi di affascinarci perché popolate da personaggi grotteschi dal fascino intramontabile, protagonisti di storie surreali a tratti ammantate da un mix di malinconia e humor nero, in cui il rifiuto dell’autorità precostituita, il senso di oppressione e l’angoscia per la condizione umana rappresentano una sorta di substrato su cui innestare la narrazione di originali vicende.
Celebrato in tutto il mondo per l’eredità letteraria e di pensiero che ci ha lasciato, Kafka e il suo universo sono stati ispirazione per innumerevoli artisti, non solo scrittori, che della sua vita o della sua arte ne hanno fatto tema o complemento del proprio lavoro.
Tra questi rimandi d’autore mi ha molto colpito un’opera che ho apprezzato in un viaggio nella splendida Praga dove, il provocatorio artista David Černý, uno dei più famosi e irriverenti scultori della Repubblica Ceca, nel 2014 ha realizzato la cosiddetta Testa di Kafka, una scultura cinetica in acciaio specchiato, composta da 42 sezioni orizzontali ritmicamente rotanti su guide circolari, “evoluzione” di una sua precedente opera, Metalmorphosis, visibile a Charlotte nella Carolina del Nord in USA.
Alta circa 10 metri e pesante pressappoco 39 tonnellate, in quel suo continuo mutare per non essere mai uguale a sé stessa e solo a tratti compiuta, questa scultura mi ha rapita perché al suo cospetto ho percepito come un messaggio “stratificato” – una sorta di armonia in una magistrale disarmonia -, nelle cui pieghe sono coniugati in modo tangibile due tratti distintivi di Kafka e del suo mondo: da una parte la dibattuta questione relativa all’inafferrabile verità su chi egli intimamente sia stato, che divide estimatori e studiosi sin dalla sua morte avvenuta il 3 giugno del 1924, tema che, in generale, allargando l’orizzonte, ci rimanda al problema del senso dell’Io e della mutevolezza dell’identità; dall’altra ci offre uno scorcio privilegiato di quell’aura di allucinazione e paradosso che pervade le sue opere, definita, non a caso, kafkiana, resa dall’effetto prodotto dalle cose circostanti che si rispecchiano in un gioco di frammentazione e ricomposizione sul lucido acciaio della scultura.
La Testa di Kafka mi ha sorpreso per la sua immediatezza, il suo essere nuda e cruda, pane al pane e vino al vino, ma al contempo capace di restituire letture soggettive, riaccendere memorie, provocare emozioni, come solo l’Arte sa fare. Da non perdere.