In un sistema che si definisce liberale e basato sul libero mercato, ci si aspetterebbe che anche l’editoria segua le stesse regole di concorrenza e meritocrazia. E invece, ecco che puntualmente arriva l’ennesima iniezione di denaro pubblico destinata alle grandi testate giornalistiche: 60 milioni di euro a beneficio di colossi come RCS, Gedi e Rizzoli. Un’operazione che, più che un aiuto all’informazione, appare come un investimento strategico per mantenere il controllo sul discorso pubblico e mettere il bavaglio a qualsiasi voce fuori dal coro.
Perché il giornalismo mainstream viene finanziato mentre altre imprese sono costrette a sopravvivere seguendo le leggi di mercato? La risposta è semplice: chi paga, comanda. E in questo caso, chi eroga i fondi pubblici ha tutto l’interesse a garantirsi un’informazione conforme ai propri interessi. Nessuna voce scomoda, nessuna indagine che possa mettere in discussione il potere, nessuna opinione che possa deviare dalla narrazione dominante.
Il sistema funziona così: lo Stato premia con finanziamenti chi si allinea, mentre i piccoli editori – quelli che potrebbero portare punti di vista alternativi e indipendenti – vengono lasciati morire soffocati dai costi e dall’assenza di visibilità. In questo modo, l’informazione diventa un prodotto standardizzato, omologato, privo di quella diversità di opinioni che dovrebbe essere il cuore pulsante di una democrazia sana.
Mentre migliaia di piccole imprese e professionisti devono ogni giorno confrontarsi con tasse, concorrenza e rischio di fallimento, le grandi testate giornalistiche vengono mantenute artificialmente in vita con soldi pubblici. Perché? La narrativa ufficiale parla di “sostegno alla libertà di stampa”, ma nei fatti si tratta di un meccanismo di controllo e selezione.
Un piccolo editore indipendente non ha accesso a questi fondi e deve affidarsi alla qualità del proprio lavoro per sopravvivere. Al contrario, le grandi testate, sicure di ricevere i milioni statali, possono permettersi di pubblicare contenuti sempre più prevedibili, rassicuranti per il potere e ininfluenti per il cambiamento. Così, si annienta il pluralismo e si garantisce che solo certe voci abbiano il megafono necessario per essere ascoltate.
Il risultato di questo sistema è un’informazione sempre più sterile e omologata. Non è un caso se oggi i grandi quotidiani sembrano copie carbone l’uno dell’altro: stesse notizie, stesse opinioni, stesso lessico. Nessuna critica vera, nessun approfondimento indipendente, solo un flusso costante di narrazioni preconfezionate che servono a mantenere lo status quo.
Il problema è che, in una società dove l’informazione è controllata da pochi gruppi editoriali finanziati dal sistema, il pensiero critico muore. Le masse vengono nutrite con contenuti selezionati per non disturbare i veri centri di potere, mentre le voci indipendenti faticano a emergere. Così, il dibattito pubblico diventa un’illusione: si discute solo entro i limiti imposti, senza mai scalfire davvero i meccanismi di potere.
I finanziamenti pubblici ai grandi giornali sono un colpo mortale alla libertà di stampa. Non solo alterano le regole del mercato, favorendo le testate già potenti a scapito delle realtà indipendenti, ma trasformano il giornalismo in un’industria controllata dall’alto, dove il dissenso è sistematicamente soffocato.
Se davvero si volesse tutelare il pluralismo dell’informazione, si dovrebbe lasciare che sia il pubblico a scegliere quali giornali sostenere, senza interferenze statali. Ma questo significherebbe rischiare di perdere il controllo sulle narrazioni, e questo è un lusso che i potenti non possono permettersi.
Raimondo Schiavone