Come ogni anno dal 2005, il 27 gennaio ricorre il giorno della memoria, data simbolica istituita dall’ONU per commemorare le vittime della Shoah. Ottant’anni fa, nel 1945, le truppe dell'Armata Sovietica abbatterono i cancelli di Auschwitz – il più grande e tristemente famoso campo di concentramento e sterminio Nazista – e liberarono le poche migliaia di prigionieri rimasti all’interno (molti erano già stati costretti forzatamente a lasciare il campo, obbligati in quelle che sono ricordate come le “marce della morte”).
L’incubo di inaudita ferocia che aveva investito l’Europa, snaturandone ogni tratto umano, stava volgendo al termine, accompagnato dall’indicibile sofferenza delle sue vittime e dall’indignazione di chi, ignorandone l’esistenza, scopriva, con esso, anche la complice indifferenza che l’aveva avvolto.
Come ci rammenta il giorno della memoria, questa tragedia, che ha segnato in modo indelebile il XX secolo e che rappresenta una delle più devastanti della storia moderna, non va dimenticata, affinché l’umanità non si trovi a commettere di nuovo una tale atrocità.
Anche l’arte offre il suo contributo nel custodirne il ricordo, svolgendo un ruolo fondamentale.
Attraverso le sue varie forme – pittura, scultura, fotografia, letteratura e cinema – l’arte contribuisce a raccontare e preservare la memoria di quei giorni oscuri, e lo fa svelandoci, al contempo, il suo ruolo ambivalente.
Nel contesto di tragedie storiche e personali il processo creativo offre la via per dar corso ad una rielaborazione profonda delle esperienze traumatiche e per la ricerca di attribuzione di significato a ciò che è irrazionale, distruttivo e spesso inenarrabile, giacché il trauma, che si nutre del silenzio e della difficoltà di raccontare, trova una sua voce nella creatività; il risultato, l’opera concepita, rende tangibile ciò che è invisibile e muto, contribuendo a far conoscere ad altri la propria testimonianza, narrata in un linguaggio universale e in qualche modo “collettivo”, capace di trasformare la condivisione in partecipazione empatica.
Ogni opera figlia della Shoah, racconto o rappresentazione di chi ha vissuto l'orrore dei campi di concentramento, delle deportazioni e del sistematico annientamento di milioni di persone, è una testimonianza storica, un canale narrativo che attraversa lo spazio e il tempo.
Da Anna Frank a Primo Levi, a Liliana Segre, a Elie Wiesel, a Samuel Bak, a Edith Birkin, a David Olère, a Josef Szajna, a Felix Nussbaum e a tutti gli altri artisti noti o sconosciuti che ci hanno tramandato il pesante fardello di questo ricordo, dobbiamo la nostra gratitudine, perché nel ritrovarci “nudi” di fronte alla bruttura di cui possiamo esser capaci, ci permettono di ripensarci come esseri umani nuovi.
Il cinema, tra le diverse forme d’arte, ha avuto ed ha un ruolo cruciale nel raccontare la Shoah, soprattutto alle nuove generazioni. Film-capolavoro come “Il bambino con il pigiama a righe” tratto dal romanzo di John Boyne, “Schindler’s List” di Steven Spielberg, “La vita è bella” di Roberto Benigni, per citarne solo alcuni, grazie a narrazioni emotive e a personaggi simbolici riescono a toccare profondamente le corde dell’anima, facendoci entrare in risonanza con la sofferenza che raccontano.
L'arte è dunque un medium tra ciò che è stato nel passato e il suo ricordo nel futuro: è un mezzo potentissimo per scongiurare l’oblio e mantenere viva la memoria storica della Shoah, alimentando così nel mondo un perpetuo monito contro le intolleranze e le barbarie.
(Virginia Nicoletti)