(Federica Cannas) Nel panorama della modernità artistica, Salvador Dalí e Pablo Picasso stanno in perenne tensione tra loro. Non amici, non nemici, ma speculari. Entrambi spagnoli, entrambi rivoluzionari, entrambi ingombranti. Ma mentre uno cercava di dissolvere il reale nell’onirico, l’altro lo frantumava fino a ricomporlo.
Picasso lavorava sfornando stili, come un operaio intellettuale. Mai una pausa, mai un dubbio. Il suo ego era silenzioso ma devastante. Il corpo femminile, per lui, era campo di battaglia. Scomposto, sezionato, ricomposto a suo uso e consumo visivo. Il tempo? Non pervenuto.
Dalí invece era il teatrante cosmico. Voleva non solo essere guardato, ma ricordato. I suoi baffi erano opere a sé, il suo ego era più visibile delle sue tele. Dipingeva il tempo come una sostanza organica. Gocciolante, eterno eppure disciolto. Per lui l’identità era una una metamorfosi continua. Il corpo era macchina, sogno, incubo. E lui stesso una performance con firma.
Il loro rapporto fu tutto fuorché semplice. Dalí venerava Picasso con reverenza sarcastica e con delirio di grandezza. Picasso disprezzava Dalí per il suo circo surrealista, ma sotto sotto lo temeva. Dalí era libero, imprevedibile, troppo folle per essere incasellato anche dall’arte.
Il loro antagonismo, mai esplicito, era fatto di sguardi a distanza e dichiarazioni oblique. Ma forse servivano l’uno all’altro. Picasso aveva bisogno del caos geniale di Dalí per non adagiarsi nei suoi successi da artista già consacrato. Dalí, invece, vedeva in Picasso l’unico rivale abbastanza grande da giustificare il suo smisurato ego.
Entrambi hanno smesso di essere artisti per diventare concetti. Mostri sacri da museo e da meme. E mentre oggi li impacchettiamo in mostre a tema e merchandising, resta l’eco di un dialogo mai pronunciato, una guerra fredda a colpi di pennello, baffi e sogni infranti.
Picasso lavorava sfornando stili, come un operaio intellettuale. Mai una pausa, mai un dubbio. Il suo ego era silenzioso ma devastante. Il corpo femminile, per lui, era campo di battaglia. Scomposto, sezionato, ricomposto a suo uso e consumo visivo. Il tempo? Non pervenuto.
Dalí invece era il teatrante cosmico. Voleva non solo essere guardato, ma ricordato. I suoi baffi erano opere a sé, il suo ego era più visibile delle sue tele. Dipingeva il tempo come una sostanza organica. Gocciolante, eterno eppure disciolto. Per lui l’identità era una una metamorfosi continua. Il corpo era macchina, sogno, incubo. E lui stesso una performance con firma.
Il loro rapporto fu tutto fuorché semplice. Dalí venerava Picasso con reverenza sarcastica e con delirio di grandezza. Picasso disprezzava Dalí per il suo circo surrealista, ma sotto sotto lo temeva. Dalí era libero, imprevedibile, troppo folle per essere incasellato anche dall’arte.
Il loro antagonismo, mai esplicito, era fatto di sguardi a distanza e dichiarazioni oblique. Ma forse servivano l’uno all’altro. Picasso aveva bisogno del caos geniale di Dalí per non adagiarsi nei suoi successi da artista già consacrato. Dalí, invece, vedeva in Picasso l’unico rivale abbastanza grande da giustificare il suo smisurato ego.
Entrambi hanno smesso di essere artisti per diventare concetti. Mostri sacri da museo e da meme. E mentre oggi li impacchettiamo in mostre a tema e merchandising, resta l’eco di un dialogo mai pronunciato, una guerra fredda a colpi di pennello, baffi e sogni infranti.