(Federica Cannas) C’è un passaggio in Frankenstein, o il moderno Prometeo che spesso sfugge, eppure racchiude tutta la fragilità e la grandezza della Creatura. Rifiutata dal mondo, trova rifugio in una capanna e, nascosta tra le ombre, impara il linguaggio umano, osservando una famiglia. Li ascolta, li studia, si nutre delle loro parole come un bambino affamato d’amore. Nella loro quotidianità scopre la dolcezza dei legami, il calore degli affetti, la bellezza del sapere. Ma soprattutto capisce una cosa. Lui non ne farà mai parte.
Non è un mostro. È un’anima senza nome, un orfano del mondo, condannato alla solitudine prima ancora di poter dimostrare chi è. Il suo cuore batte di desiderio, di speranza, di una disperata voglia di essere accettato. Eppure, tutto questo non basta.
Perché noi continuiamo a chiamarlo “mostro”.
Ma proviamo a cambiare prospettiva. E se il vero eroe del romanzo non fosse Victor Frankenstein, il suo ambizioso creatore, ma proprio la sua Creatura?
La Creatura nasce senza un nome, senza una storia, senza qualcuno che la stringa al petto e le dica tu appartieni a questo mondo. Il suo primo respiro è solitudine. I suoi primi passi sono fuga. La sua prima lezione è la paura che vede negli occhi degli altri.
Ha imparato ad amare l’umanità prima ancora di conoscerla. E quando finalmente si avvicina, quando crede di poter essere parte di quella bellezza che tanto ammira, viene respinta. Non perché abbia fatto qualcosa di male. Ma perché esiste.
Il vecchio De Lacey, cieco, lo accoglie con parole gentili, senza pregiudizi. Ma non appena gli altri vedono la sua pelle troppo bianca, il suo corpo sgraziato, il suo viso segnato dalle cicatrici, il verdetto è già scritto. Paura. Disgusto. Violenza.
Quanti sono stati evitati, esclusi, non per ciò che sono, ma per ciò che gli altri pensano che siano? La Creatura di Frankenstein è il riflesso di ogni outsider della storia, di chiunque sia stato giudicato prima ancora di poter dire una parola.
A quel punto ha due scelte: continuare a sperare o diventare ciò che il mondo vede in lui.
Sappiamo quale strada sceglierà.
Victor Frankenstein è spesso descritto come un genio tragico, un uomo che ha osato troppo e pagato il prezzo delle sue ambizioni. Ma in realtà, ha giocato a essere Dio, ha dato la vita e poi si è voltato dall’altra parte. Non ha insegnato nulla alla sua Creatura, non l’ha guidata, non le ha concesso il diritto di esistere. L’ha condannata alla solitudine e alla rabbia. Se
l’avesse accolta, se le avesse dato un nome, se le avesse insegnato l’amore, anziché la paura, forse questa storia non sarebbe un romanzo gotico, un horror, ma un racconto sulla comprensione e la redenzione. Forse il “mostro” non sarebbe mai esistito.
Il romanzo di Mary Shelley sembra incredibilmente moderno. Oggi non creiamo mostri con pezzi di cadaveri, ma inventiamo tecnologie che potrebbero un giorno sviluppare coscienza. Se un’IA iniziasse a provare emozioni, la tratteremmo come un essere vivente o come un errore da cancellare?
Ma il tema va oltre la scienza. Ogni giorno costruiamo muri. Tra culture, tra generazioni, tra chi è dentro e chi è fuori. Spesso la paura dell’altro ci impedisce di vedere l’essere umano che abbiamo davanti. Quante possibilità di amore, amicizia, comprensione perdiamo perché ci fermiamo alla superficie?
Se ci fermassimo un attimo a guardare davvero chi è diverso da noi, senza paura, senza pregiudizi, potrebbero nascere anche storie meravigliose.
Forse Frankenstein ci insegna qualcosa di diverso da quello che abbiamo sempre creduto. Il vero mostro non è chi nasce diverso. Il vero mostro è la paura che ci fa allontanare, che ci impedisce di vedere la bellezza negli altri.
Se provassimo a dare un nome a chi non ne ha mai avuto uno, se provassimo ad abbracciare la Creatura anziché fuggire da lei, scopriremmo che il vero eroe non è chi crea la vita. Ma chi sa accoglierla.
Non è un mostro. È un’anima senza nome, un orfano del mondo, condannato alla solitudine prima ancora di poter dimostrare chi è. Il suo cuore batte di desiderio, di speranza, di una disperata voglia di essere accettato. Eppure, tutto questo non basta.
Perché noi continuiamo a chiamarlo “mostro”.
Ma proviamo a cambiare prospettiva. E se il vero eroe del romanzo non fosse Victor Frankenstein, il suo ambizioso creatore, ma proprio la sua Creatura?
La Creatura nasce senza un nome, senza una storia, senza qualcuno che la stringa al petto e le dica tu appartieni a questo mondo. Il suo primo respiro è solitudine. I suoi primi passi sono fuga. La sua prima lezione è la paura che vede negli occhi degli altri.
Ha imparato ad amare l’umanità prima ancora di conoscerla. E quando finalmente si avvicina, quando crede di poter essere parte di quella bellezza che tanto ammira, viene respinta. Non perché abbia fatto qualcosa di male. Ma perché esiste.
Il vecchio De Lacey, cieco, lo accoglie con parole gentili, senza pregiudizi. Ma non appena gli altri vedono la sua pelle troppo bianca, il suo corpo sgraziato, il suo viso segnato dalle cicatrici, il verdetto è già scritto. Paura. Disgusto. Violenza.
Quanti sono stati evitati, esclusi, non per ciò che sono, ma per ciò che gli altri pensano che siano? La Creatura di Frankenstein è il riflesso di ogni outsider della storia, di chiunque sia stato giudicato prima ancora di poter dire una parola.
A quel punto ha due scelte: continuare a sperare o diventare ciò che il mondo vede in lui.
Sappiamo quale strada sceglierà.
Victor Frankenstein è spesso descritto come un genio tragico, un uomo che ha osato troppo e pagato il prezzo delle sue ambizioni. Ma in realtà, ha giocato a essere Dio, ha dato la vita e poi si è voltato dall’altra parte. Non ha insegnato nulla alla sua Creatura, non l’ha guidata, non le ha concesso il diritto di esistere. L’ha condannata alla solitudine e alla rabbia. Se
l’avesse accolta, se le avesse dato un nome, se le avesse insegnato l’amore, anziché la paura, forse questa storia non sarebbe un romanzo gotico, un horror, ma un racconto sulla comprensione e la redenzione. Forse il “mostro” non sarebbe mai esistito.
Il romanzo di Mary Shelley sembra incredibilmente moderno. Oggi non creiamo mostri con pezzi di cadaveri, ma inventiamo tecnologie che potrebbero un giorno sviluppare coscienza. Se un’IA iniziasse a provare emozioni, la tratteremmo come un essere vivente o come un errore da cancellare?
Ma il tema va oltre la scienza. Ogni giorno costruiamo muri. Tra culture, tra generazioni, tra chi è dentro e chi è fuori. Spesso la paura dell’altro ci impedisce di vedere l’essere umano che abbiamo davanti. Quante possibilità di amore, amicizia, comprensione perdiamo perché ci fermiamo alla superficie?
Se ci fermassimo un attimo a guardare davvero chi è diverso da noi, senza paura, senza pregiudizi, potrebbero nascere anche storie meravigliose.
Forse Frankenstein ci insegna qualcosa di diverso da quello che abbiamo sempre creduto. Il vero mostro non è chi nasce diverso. Il vero mostro è la paura che ci fa allontanare, che ci impedisce di vedere la bellezza negli altri.
Se provassimo a dare un nome a chi non ne ha mai avuto uno, se provassimo ad abbracciare la Creatura anziché fuggire da lei, scopriremmo che il vero eroe non è chi crea la vita. Ma chi sa accoglierla.